Giuseppe Capogrossi, I Canottieri, 1933Alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia e' ospitata la mostra “
Capogrossi. Una retrospettiva”, curata da Luca Massimo Barbero fino al 10 febbraio, realizzata in collaborazione con la Fondazione Archivio Capogrossi di Roma, che ripercorre l'iter artistico di uno dei protagonisti nell'arte del secondo dopoguerra insieme ad Alberto Burri e Lucio Fontana. Sono esposte oltre settanta opere, tra dipinti e lavori su carta, provenienti da importanti musei e collezioni private. Si parte dagli esordi figurativi degli anni '30, contraddistinti da una pittura tonale densa di contenuti originali - durante il periodo della Scuola Romana - e si arriva, attraverso un breve periodo cosiddetto
neo cubista, alla produzione astratta degli anni '50 e '60, con le grandi tele dominate dalla
forma-segno : queste, coniugandosi in infinite composizioni, giungono a costruire lo spazio del quadro, rappresentazione simbolica di un'interiore organizzazione spaziale.
Giuseppe Capogrossi, Superficie 56, 1950-1952
Le opere di Capogrossi sono dominate da quell'innovativo “alfabeto”, che ha reso celebre l'artista. In esse si fa sempre più chiara l'importanza del segno che caratterizza in modo assolutamente personale la sua ricerca. Molta critica ha azzardato spiegazioni circa la cifra artistica capogrossiana del “forchettone”, o del “pettine” - come popolarmente venivano chiamati quegli strani segni che instancabilmente l'artista proponeva - nelle molteplici e pure interessantissime composizioni che le comprendevano. Argan, negli anni '50, vi aveva visto un segno d'orizzonte, nella parte curva, e la traccia d'una indicazione prospettica nelle gambe centrali, una simbologia capace di sintetizzare tutto ciò che occorre per circoscrivere il reale.
Giuseppe Capogrossi, Due chitarre, 1948
Bonito Oliva, invece, oggi vi vede una “vera e propria figura, per riconoscibilità e classica semplicità,...
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